2000–2009
Controlla i tuoi sentimenti, fratello mio
Ottobre 2009


Controlla i tuoi sentimenti, fratello mio

Se desideriamo avere il giusto spirito in ogni momento, dobbiamo scegliere di astenerci dall’arrabbiarci.

Fratelli, siamo riuniti, sia qui nel Centro delle conferenze che in vari luoghi nel mondo, come detentori del sacerdozio. Questa sera abbiamo sentito messaggi ispirati e voglio esprimere apprezzamento per i Fratelli che ci hanno parlato. Sono onorato di parlarvi, ma sento anche la responsabilità di questo privilegio. Prego che il Signore mi conceda la Sua ispirazione.

Recentemente ho guardato il telegiornale e mi sono reso conto che molte notizie principali avevano una natura simile. Le tragedie riportate erano tutte praticamente riconducibili a un’emozione: la rabbia. Il padre di un neonato era stato arrestato per aver maltrattato il figlio. Si ritiene che il pianto del figlio avesse fatto infuriare il padre a tal punto che questi gli aveva rotto un arto e varie costole. Un rapporto allarmante parlava della violenza in crescita e dell’impennata nel numero di omicidi tra bande. Un altro servizio di quella sera parlava dell’uccisione di una donna da parte del marito separato, il quale sembra fosse in preda all’ira per averla scoperta con un altro uomo. Poi, ovviamente, c’erano i soliti servizi sulle guerre e sui conflitti nel mondo.

Ho pensato alle parole dell’autore dei Salmi: «Cessa dall’ira e lascia lo sdegno».1

Molti anni fa, una giovane coppia telefonò nel mio ufficio in cerca di aiuto. I due indicarono di aver vissuto una tragedia e che il loro matrimonio era in serio pericolo. Fu fissato un appuntamento.

Quando entrarono nel mio ufficio, la tensione tra il marito e la moglie era evidente. Poco alla volta mi raccontarono la loro storia. Il marito parlò facendo lunghe pause, mentre la moglie pianse in silenzio e partecipò molto poco alla conversazione.

Dopo aver servito una missione, il giovane uomo era stato accettato in una prestigiosa università nella parte orientale degli Stati Uniti. Fu lì, in un rione universitario, che aveva incontrato la sua futura moglie. Anch’ella era una studentessa in quella università. Dopo essersi frequentati per un anno, erano venuti nello Utah e si erano sposati nel Tempio di Salt Lake. Poi erano tornati a scuola per completare la loro istruzione.

Dopo la laurea, erano tornati nella città d’origine. Ora aspettavano il loro primo figlio e il marito aveva trovato lavoro nel campo scelto. La moglie aveva partorito un maschietto. La vita era bella.

Quando il figlio aveva circa diciotto mesi, avevano deciso di prendersi una breve vacanza per visitare dei familiari che vivevano a qualche centinaio di chilometri da loro. In quel periodo i seggiolini per bambini e le cinture di sicurezza per gli adulti erano poco comuni e quasi per niente utilizzati. I tre membri di questa famiglia erano seduti tutti davanti, con il piccolo nel mezzo.

A un certo punto del viaggio, il marito e la moglie avevano avuto un disaccordo. Dopo tutti questi anni, non ricordo quale fosse stato il motivo. Ma ricordo che il litigio si era intensificato e si era animato così tanto che i due si erano ritrovati a urlarsi contro. Ovviamente, il figlio aveva iniziato a piangere, cosa che, a dire del marito, non fece che aumentare la sua rabbia. Così, perso ogni controllo su se stesso, il marito aveva preso un giocattolo che il figlio aveva fatto cadere sul sedile e lo aveva lanciato contro la moglie.

Non era riuscito a colpirla. Purtroppo però il giocattolo aveva colpito il figlio, che riportò danni cerebrali che lo resero disabile per tutto il resto della vita.

Si trattò di una delle situazioni più tragiche che avessi mai visto. Gli diedi dei consigli e li incoraggiai. Parlammo di impegno e di responsabilità, di accettazione e di perdono. Parlammo dell’amore e del rispetto che avrebbero dovuto ritrovare posto nella loro famiglia. Leggemmo parole di conforto nelle Scritture. Pregammo insieme. Sebbene non li abbia più sentiti da allora, quando lasciarono il mio ufficio, tra le lacrime, sorridevano. In tutti questi anni, ho sperato che abbiano fatto la scelta di restare insieme, confortati e benedetti dal vangelo di Gesù Cristo.

Penso a loro ogni volta che leggo le parole: «La rabbia non risolve niente; non costruisce niente, ma può distruggere tutto».2

Tutti abbiamo provato rabbia. Può succedere quando le cose non vanno come vorremmo. Può essere la reazione a qualcosa che ci viene detto. Possiamo provarla quando le persone non si comportano come vorremmo. Forse la proviamo quando dobbiamo aspettare più a lungo di quanto ci saremmo aspettati. Possiamo arrabbiarci quando gli altri non hanno la nostra stessa prospettiva sulle cose. Sembrano esserci innumerevoli motivi per provare rabbia.

A volte ci arrabbiamo perché ci immaginiamo delle offese o delle ingiustizie. Il presidente Heber J. Grant, settimo presidente della Chiesa, raccontò di una volta in cui, da giovane, aveva lavorato per un uomo che poi gli aveva mandato un assegno di cinquecento dollari, accompagnato da una lettera nella quale si scusava per non averlo potuto pagare di più. Poi il presidente Grant aveva lavorato per un altro uomo; lavoro che, come raccontò, era stato dieci volte più difficile del primo, e che aveva richiesto un impegno dieci volte maggiore e molto più tempo. Questo secondo uomo gli aveva mandato un assegno di centocinquanta dollari. Il giovane Heber Grant si era sentito trattato molto ingiustamente. Si era sentito insultato e poi si era infuriato.

Aveva raccontato l’accaduto a un amico più grande, il quale gli aveva chiesto: «Quell’uomo intendeva insultarti?»

Il presidente Grant aveva risposto: «No. Ha detto ai miei amici di avermi ricompensato molto bene».

Al che, l’amico più grande aveva risposto: «È stolto l’uomo che si ritiene insultato, quando non ce n’era l’intenzione».3

In Efesini, al versetto 26 del capitolo 4 della Traduzione di Joseph Smith, l’apostolo Paolo chiede: «Potete adirarvi e non peccare? Il sole non tramonti sulla vostra ira». Ora vi chiedo: «Possiamo sentire lo spirito del nostro Padre celeste quando siamo arrabbiati?» Non conosco nessun caso in cui ciò sia possibile.

In 3 Nefi, nel Libro di Mormon, leggiamo:

«E non vi saranno dispute fra voi…

Poiché in verità, in verità io vi dico che colui che ha lo spirito di contesa non è mio, ma è del diavolo, che è il padre delle contese, e incita i cuori degli uomini a contendere con ira l’uno con l’altro.

Ecco, questa non è la mia dottrina, di incitare i cuori degli uomini all’ira, l’uno contro l’altro; ma la mia dottrina è questa, che tali cose siano eliminate».4

Arrabbiarsi significa sottomettersi all’influenza di Satana. Nessuno può farci arrabbiare. È una nostra scelta. Se desideriamo avere il giusto spirito in ogni momento, dobbiamo scegliere di astenerci dall’arrabbiarci. Rendo testimonianza che si può.

La rabbia, strumento di Satana, è distruttiva in molti modi.

Credo che la maggior parte di noi conosca la storia triste di Thomas B. Marsh e di sua moglie, Elizabeth. Il fratello Marsh fu uno degli apostoli moderni chiamati dopo la restaurazione della Chiesa sulla terra. Divenne presidente del Quorum dei Dodici Apostoli.

Mentre i santi erano a Far West, nel Missouri, Elizabeth Marsh, la moglie di Thomas, e una sua amica, la sorella Harris, decisero di mettere insieme il latte per poter fare più formaggio di quanto avrebbero potuto farne solamente con il proprio. Per assicurarsi che tutto fosse fatto onestamente, si accordarono di non tenere per sé la panna, ma di condividere sia il latte che la panna. La panna proveniva dall’ultimo latte munto ed era ricca di crema.

La sorella Harris tenne fede all’accordo, mentre la sorella Marsh, desiderosa di fare del formaggio davvero delizioso, conservò circa mezzo litro di panna di ogni mucca e mandò alla sorella Harris il latte senza la panna. Questo fece nascere una discussione tra le due donne. Non riuscendo a risolvere la questione da sole, chiesero l’aiuto degli insegnanti familiari. Elizabeth Marsh fu ritenuta colpevole di essere venuta meno all’accordo. Ella e suo marito non gradirono la decisione a tal punto che chiesero al vescovo di convocare un consiglio della Chiesa. Quel consiglio decise che la sorella Marsh aveva tenuto la panna ingiustamente e che quindi aveva violato il suo patto con la sorella Harris.

Thomas Marsh si appellò al Sommo Consiglio, che confermò la decisione presa dal vescovo. Poi fece appello alla Prima Presidenza della Chiesa. Joseph Smith e i suoi consiglieri considerarono il caso e sostennero la decisione del Sommo Consiglio.

L’anziano Thomas B. Marsh, che aveva sempre sostenuto la moglie, si arrabbiò sempre di più ogni volta che riceveva un verdetto, al punto che si presentò davanti a un magistrato e dichiarò che i Mormoni erano ostili allo stato del Missouri. La sua deposizione giurata portò, o almeno ne fu un fattore, al crudele ordine di sterminio del governatore Lilburn Boggs, che risultò nella cacciata dalle loro case di oltre quindicimila santi, accompagnata da sofferenze terribili e morte. Tutto questo accadde a motivo di un disaccordo in merito alla condivisione di latte e panna.5

Dopo diciannove anni di rancore e alienazione, Thomas B. Marsh venne nella Valle del Lago Salato e chiese perdono al presidente Brigham Young. Il fratello Marsh scrisse anche a Heber C. Kimball, primo consigliere nella Prima Presidenza, riguardo alla lezione che aveva imparato. Il fratello Marsh disse: «Il Signore è riuscito benissimo a tirare avanti senza di me; Egli non ha perso nulla a causa della mia defezione dalle sue file; ma io, cosa ho perso! Le ricchezze, ricchezze più grandi di tutte quelle che il mondo e molti pianeti come questo possono offrire».6

Le parole del poeta John Greenleaf Whittier sembrano appropriate: «Di tutte le parole tristi che la lingua o la penna possa dire, le più tristi sono queste: ‹Sarebbe potuto essere!›».7

Fratelli miei, tutti siamo soggetti a quei sentimenti che, se incontrollati, possono sfociare nella rabbia. Proviamo dispiacere, irritazione o antagonismo, e, se scegliamo di farlo, perdiamo la calma e ci arrabbiamo con gli altri. Per ironia della sorte, spesso quegli altri sono membri della nostra famiglia, le persone a cui vogliamo davvero più bene.

Molti anni fa lessi un articolo della Associated Press che apparve sul giornale. Diceva: «Un uomo anziano ha rivelato al funerale di suo fratello, con il quale aveva condiviso sin dalla giovinezza una piccola baracca di una sola stanza vicino a Canisteo, New York, che, a causa di una lite, essi avevano diviso la stanza in due con una linea tracciata con il gesso, e nessuno dei due l’aveva mai oltrepassata né, da quel giorno, sessantadue anni prima, aveva mai detto una sola parola all’altro!» Pensate alle conseguenze della loro rabbia. Che tragedia!

Mi auguro che faremo una scelta convinta, ogni volta che dobbiamo fare una scelta, di astenerci dalla rabbia e di non pronunciare parole dure e dolorose che potremmo avere la tentazione di dire.

Amo le parole dell’inno scritto dall’anziano Charles W. Penrose, che servì nel Quorum dei Dodici e nella Prima Presidenza nei primi anni del ventesimo secolo:

Controlla i tuoi sentimenti, fratello mio,

educa la tua anima impulsiva;

non ignorare le sue emozioni,

ma lascia che la voce della saggezza le controlli.

Controlla i tuoi sentimenti; c’è potere

nella mente che si sa controllare.

La passione spazza la torre della ragione,

rende oscura la visione più chiara.8

Ognuno di noi è un detentore del sacerdozio di Dio. Il giuramento e alleanza del sacerdozio riguardano tutti noi. Per coloro che detengono il Sacerdozio di Melchisedec, è una dichiarazione del nostro requisito di essere fedeli e obbedienti alle leggi di Dio e di magnificare le chiamate che ci vengono date. Per coloro che detengono il Sacerdozio di Aaronne, è una dichiarazione che riguarda i doveri e le responsabilità future, affinché essi possano prepararsi già da oggi.

Questo giuramento e questa alleanza sono stabilite dal Signore con queste parole:

«Poiché, chiunque è fedele così da ottenere questi due sacerdozi di cui ho parlato e magnificare la sua chiamata, è santificato dallo Spirito a rinnovamento del suo corpo.

Essi divengono i figli di Mosè e di Aaronne, e la posterità di Abrahamo, e la chiesa, il regno e gli eletti di Dio.

E inoltre, tutti coloro che ricevono questo sacerdozio accettano me, dice il Signore;

Poiché colui che accetta i miei servitori, accetta me;

E colui che accetta me, accetta mio Padre;

E colui che accetta mio Padre, riceve il regno di mio Padre; perciò, tutto quello che mio Padre ha gli sarà dato».9

Fratelli, ci attendono grandi promesse se siamo leali e fedeli al giuramento e all’alleanza di questo sacerdozio prezioso che deteniamo. Prego che possiamo essere figli degni del nostro Padre celeste. Prego che possiamo essere degli esempi nella nostra casa e fedeli nell’osservare tutti i comandamenti, che non nutriamo animosità verso gli uomini, ma che siamo piuttosto dei portatori di pace, sempre consci dell’ammonimento del Signore, che disse: «Da questo conosceranno tutti che siete miei discepoli, se avete amore gli uni per gli altri».10 Questo è il mio appello e la mia umile e sincera preghiera alla conclusione di questa grande riunione del sacerdozio, poiché vi voglio bene, fratelli, con tutto il cuore e con tutta l’anima mia. Prego che le benedizioni del nostro Padre celeste siano su ciascuno di voi, sulla vostra famiglia, sul vostro cuore e sulla vostra anima. Nel nome di Gesù Cristo. Amen.

Nota

  1. Salmi 37:8.

  2. Lawrence Douglas Wilder, citato in «Early Hardships Shaped Candidates», Deseret News, 7 dicembre 1991, A2.

  3. Vedere Heber J. Grant, Gospel Standards, compilato da G. Homer Durham (1969), 288–289.

  4. 3 Nefi 11:28–30.

  5. Vedere George A. Smith, «Discourse», Deseret News, 16 aprile 1856, 44.

  6. Thomas B. Marsh to Heber C. Kimball, 5 maggio 1857, Brigham Young Collection, Church History Library.

  7. «Maud Muller», The Complete Poetical Works of John Greenleaf Whittier (1876), 206.

  8. «School Thy Feelings», Hymns, 336.

  9. DeA 84:33–38.

  10. Giovanni 13:35.