2003
I servi inutili
Ottobre 2003


Parabole di Gesù

I servi inutili

Gesù istruì i Suoi discepoli sulla fede e la fedeltà, nonché sul rapporto esistente tra la Sua grazia e le nostre opere.

Ero uno di quattro figli cresciuti in una fattoria a conduzione familiare, nello Utah settentrionale, e mi furono impartite molte lezioni preziose dai miei genitori saggi, amorevoli e lungimiranti. A noi figli fu insegnato mediante il precetto e l’esempio a riporre la nostra fiducia nel Signore e che «ogni vittoria e gloria si realizza per [noi] tramite la [nostra] diligenza, la [nostra] fedeltà e le [nostre] preghiere di fede» (DeA 103:36). Ci fu insegnato a essere fedeli al Signore Gesù Cristo e ai Suoi insegnamenti.

Quando stava per portare a termine il Suo ministero terreno, il Salvatore istruì i Suoi discepoli sulla fede e la fedeltà. Le Sue parole richiedevano nuovi e apparentemente ardui modelli di condotta (vedere Luca 10–19). Alcuni dei Suoi discepoli si sentirono sopraffatti e supplicarono: «Signore: Aumentaci la fede» (Luca 17:5). Il Salvatore rispose presentando loro quella che a noi sembra più che una dottrina dura: una parabola sulla fede e la fedeltà. Nella parabola dei servi inutili troviamo immagini tratte dalla vita agreste, che essi potevano comprendere facilmente. I suoi principi possono essere messi in pratica oggi quanto allora.

Il servitore e il padrone

Gesù inizia: «Or chi di voi, avendo un servo ad arare o pascere…» (Luca 17:7). Ai tempi di Gesù i servitori appartenevano ai padroni e la loro condizione era più simile a quella di schiavi piuttosto che di dipendenti. Per legge erano tenuti a fare qualsiasi cosa il padrone richiedesse loro, ad esempio: arare i campi, tenere a bada le pecore, oppure preparare e servire i pasti. Il padrone, in compenso, provvedeva ai servitori.

Il Salvatore continuò con una domanda: «Quand’ei torna a casa dai campi, gli dirà: Vieni presto a metterti a tavola? Non gli dirà invece: Preparami la cena, e cingiti a servirmi finch’io abbia mangiato e bevuto, e poi mangerai e berrai tu?» (Versetti 7–8). Il compito del servitore era quello di pensare per prima cosa ai bisogni del padrone. Era inconcepibile che fosse permesso al servitore di pranzare se il pasto del padrone non era pronto.

Gesù concluse quindi la parabola con questa domanda retorica: «Si ritiene egli forse obbligato al suo servo perché ha fatto le cose comandategli?» (Versetto 9). Il servitore non doveva aspettarsi di ricevere dei ringraziamenti per le cose che svolgeva poiché, dopo tutto, stava adempiendo solamente ciò che si era già impegnato a fare.

Il Salvatore, per assicurarsi che i Suoi discepoli comprendessero il punto di questa parabola, rimarcò: «Così anche voi, quand’avrete fatto tutto ciò che v’è comandato, dite: Noi siamo servi inutili; abbiam fatto quel ch’eravamo in obbligo di fare» (versetto 10). Giacché il padrone aveva provveduto a tutti i bisogni del servo, l’opera di quest’ultimo non era che l’assolvimento del debito col padrone e ciò che era in ogni modo suo dovere svolgere.

Ritengo che con questa parabola Gesù stesse insegnando ai Suoi discepoli la fede e la fedeltà, principi che io ho iniziato ad apprendere nella fattoria, da bambino.

I principi della fedeltà e del valore

Immaginate nella vostra mente quattro ragazzi che crescono in una fattoria. Per noi fedeltà significava fare il miglio in più. Significava non doverci aspettare di essere comandati in ogni cosa, ma prevenire e fare ciò che occorreva. Pasturare il bestiame non consisteva semplicemente nel buttare il fieno, le granaglie e il foraggio nella mangiatoia, ma contemplava anche eliminare il filo per l’imballaggio, il pacciame e le granaglie sparse. Prendersi cura del bestiame voleva dire controllare i recinti e i cancelli, pulire e spargere la paglia nelle stalle e controllare gli animali malati o zoppi. Arare i campi comportava più che guidare semplicemente il trattore da una parte all’altra del campo, ma includeva l’agganciare bene l’aratro al mezzo, fare un lavoro accurato, passando vicino ai recinti e agli argini dei canali, fare la manutenzione del macchinario, riporre gli utensili e l’attrezzatura al proprio posto.

Il tavolo della cucina non era soltanto un posto su cui mangiare; attorno ad esso si ricevevano gli insegnamenti, si condividevano sentimenti ed esperienze e si facevano programmi. La casa non era soltanto un luogo in cui vivere, ma un posto da tenere pulito, che periodicamente andava ridipinto e noi eravamo coinvolti in questo. I letti non erano lì solo per dormirci, ma per essere rifatti ogni giorno e cambiati ogni settimana. I piatti non erano lì solo per mangiarvi, ma dovevano essere lavati e riposti ordinatamente nella credenza. La frutta e la verdura non erano solo da mangiare voracemente, ma da inscatolare, imbottigliare o surgelare. I mestieri domestici facevano parte di ciò che ci si aspettava da noi bambini. Abbiamo imparato l’antico adagio: «Tanto vale fare bene un lavoro che vale la pena di essere svolto».

Valore significa espletare fedelmente i propri doveri ben oltre il minimo richiesto. Vuol dire lavorare secondo il nostro livello massimo ed è sostanzialmente fare di più di ciò che potrebbe essere richiesto come minimo. È stato molto utile aver potuto osservare nei nostri genitori un esempio coerente di valore. Alla fine di una lunga giornata di lavoro nella fattoria, nostro padre adempiva l’incarico d’insegnante familiare, come pure, nel corso degli anni, egli ha accettato e onorato molte chiamate della Chiesa. Nostra madre, oltre ad aiutare suo marito nel lavoro della fattoria e a sostenerlo negli impegni sacerdotali, ha avuto il suo bel carico di chiamate di rione e palo. I nostri genitori sono stati fedeli. Senza dubbio sono stati valorosi.

Di tanto in tanto sentiamo che alcuni fedeli della Chiesa esprimono la difficoltà a essere fedeli nel mondo d’oggi. Dicono: «È dura pagare la decima per intero», «È difficile rimanere moralmente puri», o persino «È arduo essere un Santo degli Ultimi Giorni». Il fatto che alcune cose siano difficili non è una novità per coloro che hanno abbracciato il vangelo di Gesù Cristo. Egli riverserà forza su di noi per aiutarci a fare le cose difficili.

Gesù ha insegnato molte cose difficili ai Suoi discepoli (vedere Giovanni 6:60). Cosa direbbe il Salvatore se noi fossimo portati a ritenere che il nostro carico è troppo arduo o impegnativo? Forse ci chiederebbe, come fece con i Suoi apostoli: «Non ve ne volete andare anche voi?» (Giovanni 6:67). Prego affinché possiamo riconoscere la Sua generosità e misericordia verso di noi e rispondere come Pietro: «Signore, a chi ce ne andremmo noi? Tu hai parole di vita eterna; e noi abbiam creduto ed abbiam conosciuto che tu sei il Santo di Dio» (Giovanni 6:68–69).

La fedeltà, anche a quelle dottrine che riteniamo difficili da osservare, è una qualità che il Salvatore incoraggiò nei Suoi discepoli. Gesù, tuttavia, desiderò che capissero che compiacere il padrone era più che una semplice etica lavorativa. Egli insegnò loro che si trattava anche di una questione di cuore e di rapporto con il loro Padrone celeste.

I principi di fede e grazia

Nella fattoria, sin da bambini abbiamo riconosciuto che dovevamo tutto, fisicamente e spiritualmente, al Signore e ai nostri genitori. Come Amulec istruì gli Zoramiti, anche a noi fu insegnato a pregare «sia al mattino che a mezzogiorno e alla sera» per il nostro benessere e per il benessere di coloro che ci circondavano (vedere Alma 34:19–27). Le preghiere familiari e quelle individuali erano parte della nostra vita quotidiana. Abbiamo appreso mediante il precetto e l’esempio ad avere fede nel «Signore della mietitura» (vedere Alma 26:7). Dopo aver arato, seminato, irrigato e coltivato i campi, rimettevamo il nostro destino nelle Sue mani. Lavoravamo sodo ma sapevamo che senza il sole e la pioggia, la grazia e la misericordia di Dio, nonché la benevolenza di genitori affettuosi, non eravamo in grado di compiere nulla.

Questa è la fede e la dipendenza da Dio di cui il re Beniamino parlò quando disse: «Se voi rendeste tutto il ringraziamento e tutte le lodi che la vostra anima ha facoltà di possedere a quel Dio che vi ha creati… se lo serviste con tutta quanta la vostra anima, non sareste tuttavia che dei servitori inutili… Ed ora io chiedo, potete dire qualcosa di voi stessi? Io vi rispondo: No. Non potete dire di essere neppure quanto la polvere della terra» (Mosia 2:20–21, 25).

Noi siamo in debito con Dio per la nostra vita stessa. Quando osserviamo i Suoi comandamenti, cosa che è nostro dovere fare, Egli immediatamente ci benedice. Gli siamo pertanto continuamente debitori e quindi inutili. Senza la grazia, il nostro valore solo non ci può salvare.

L’anziano Neal A. Maxwell del Quorum dei Dodici Apostoli, ha scritto quanto segue riguardo a questa parabola:

«La generosità di Dio [o grazia] verso di noi non si esprime mediante la riduzione delle richieste e dei doveri che Egli pone su noi. Laddove molto è dato, molto è richiesto, e non il contrario. Né la generosità divina si esprime riducendo le norme di Dio riguardo a ciò che deve essere compiuto. Piuttosto, quando molto è dato e molto è adempiuto dal discepolo, allora la generosità di Dio diventa stupefacente.

Quando abbiamo dato e fatto tutta la nostra parte, un giorno riceveremo ‹tutto quello che [nostro] Padre ha› [DeA 84:38]. In ciò è la generosità di Dio. Quando facciamo il nostro dovere, Egli è vincolato – felicemente vincolato».1

Nella parabola dei servi inutili, il Salvatore istruì i Suoi discepoli e noi sulla fede e fedeltà. Egli insegnò il valore e la grazia. Possiamo noi essere valorosi e fare più dei requisiti minimi. Possa ognuno di noi riconoscere con gratitudine che solo la Sua grazia è sufficiente per renderci perfetti in Lui (vedere Moroni 10:32–33).

Note

  1. Even As I Am (1982), 86.